Addio Mennea, Visini ricorda l'atleta grande e pulito
(da www.ilgrandesport.it, marzo 2013)
di Claudio Strati
La freccia si è fermata. La morte di Pietro Mennea ha preso alla sprovvista tutti. Non si sapeva della sua malattia e Vittorio Visini, abruzzese da decenni trapiantato a Schio, atleta olimpico e responsabile nazionale della marcia per lunghi anni, dice dispiaciuto: «Ho chiamato in Fidal, nessuno sapeva del suo tumore al pancreas. Se ne è andato in silenzio, in linea con la sua personalità schiva».
Il più grande talento bianco della velocità iniziò con la marcia. Lo racconta Vittorio Visini, sei Olimpiadi all’attivo come atleta e come responsabile di settore.
«Io ho sette anni in più. Nel ’65, Pietro era tredicenne. Quell’anno fui tesserato con l’Avis di Barletta il cui presidente Lattanzio voleva lanciare un club di marciatori. Ci si allenava sull’anello di cemento del ciclismo, e lì sculettava anche lui. Ne capì le potenzialità di velocista un insegnante di educazione fisica, Mascolo. E ad un raduno ad Ascoli lo vide Carlo Vittori, che poi fu il suo maestro».
Poi la carriera sportiva insieme nel team azzurro, con Visini spesso "capitano". A partire dal ’71 ad un raduno a Sochi, a contatto con i mostri russi della velocità e della marcia: «Andammo là per vedere e conoscere da vicino certi fenomeni. Lui ebbe a che fare con Borzov, io con marciatori di grande tradizione. Con noi anche la giovanissima Sara Simeoni, con le saltatrici».
E nel ’72 all’Olimpiade di Monaco: «Io feci due gare, la 20 e la 50 chilometri. Lui era ancora un ragazzino, appena ventenne, che faceva la prima grande esperienza nei 200. Ricordo che c’era Berruti a bordo pista. Come si sa - spiega Visini - ci sono sempre state scaramucce tra i due, rivalità e idee di allenamento diverse tra lo stakanovista e l’uomo di classe. Berruti non avrebbe scommesso un soldo bucato su Mennea, ma guardava attonito questo giovincello passare un turno dopo l’altro e approdare alla finale, dove colse il bronzo. "E’ andato sul podio!" commentava sbalordito l’oro di Roma ’60».
Montreal fu un’Olimpiade difficile, all’insegna di una certa rottura tra Vittori e il ct federale Rossi: «Non c’era molto feeling tra i due, Mennea arrivò all’ultimo momento ma riuscì comunque a fare una grossa prestazione, classificandosi quarto».
E quindi Mosca ‘80, il trionfo: «Un grande risultato. Gli americani non c’erano, ma lui era il più forte. L’anno prima aveva fatto a Città del Messico il famoso 19”72, un record mondiale incredibile, il che legittimò la sua vittoria moscovita pur senza gli avversari più temibili. Trovò in Wells un osso duro, ma la sua rimonta fu entusiasmante».
Visini racconta tanti particolari. In quegli anni ci fu l’idea di spostare Mennea sui 400. «A Torino, ad un triangolare tra Italia, Usa e Spagna, gli fecero correre il giro della morte. Era il figlio prediletto di Nebiolo e dei vertici federali, e volevano capire se quella poteva diventare la sua gara. Veniva giù una pioggia torrenziale, ma siccome c’erano gli americani credo volessero testarlo a tutti i costi. Pietro arrivò “a pesce”, molto in acido. Non andò bene e da quella volta lo rivedemmo solo sui 200».
Mennea fenomeno, Mennea faticatore incredibile, Mennea coscienziosissimo professionista: «Era maniacale nella preparazione. Ed è stato un esempio di professionalità: non correva dietro ai meeting che promettevano belle cifre, programmava le gare importanti, centellinava le prestazioni. Non ha mai rincorso gli ingaggi ma si preparava esclusivamente per gli appuntamenti importanti. Per questo faceva un po’ fatica a partecipare alle staffette, che considerava qualcosa in più rispetto ai suoi programmi stakanovisti, quasi una perdita di tempo».
E Mennea atleta pulito. Ora che si rilegge la storia sportiva di quegli anni alla luce delle rivelazioni di libri come quello di Donati, che hanno svelato i retroscena del "doping di stato" in molti atleti top azzurri, Vittorio Visini sottolinea la lealtà di Mennea: «Atleta di fatica e non di chimica. Un faticatore pazzesco, guidato da un Vittori rigorosissimo. Un atleta da prendere ad esempio per il lavoro, la serietà e la dedizione: rivedendo il video della finale di Mosca si nota come, rispetto agli altri, non abbia fasce muscolari particolari, soprattutto nel busto. Lui mise al bando il doping in anni in cui invece c’era, eccome. E gli americani della velocità non disdegnavano gli anabolizzanti».
«Era un introverso ma ci si frequentava, lui mi chiamava Vitto’, alla terrona maniera - sorride Visini - ed era uno sfegatato della Juve come me. Era in simpatia ad Agnelli, correva con Iveco quando vinse l’oro olimpico e l’avvocato gli aprì una concessionaria a Barletta. Abbiamo fatto tante spedizioni insieme, e tanti raduni. Memorabili quelli di Asiago, dove era stata realizzata una pista a due corsie. Furono grandi meeting di allenamento, venivano Vittori e Morale a condurli e arrivavano tutti i velocisti, da Mennea a Fiasconaro. La vita sportiva di Mennea è stata molto rigorosa e ha avuto il suo centro a Formia. Se si possono però citare altre località in cui è stato assiduo, bisogna dire la sua Barletta e Asiago».